
THE BRUTALIST
Fuggendo dall’Europa del dopoguerra, l’architetto visionario László Toth arriva in America con l’obiettivo di ricostruire la sua vita, il suo lavoro e il suo matrimonio con la moglie Erzsébet, dopo essere stati separati durante la guerra a causa di confini mutevoli e regimi oppressivi. Da solo in un paese sconosciuto, László si stabilisce in Pennsylvania, dove il ricco e influente industriale Harrison Lee Van Buren riconosce il suo talento nell’arte di costruire. Ma potere e eredità hanno un prezzo molto alto…
Si esce frastornati da «The Brutalist» (Il brutalista, inteso come esponente dell’omonima corrente architettonica) di Brady Corbet, storditi da una macchina da presa che dà l’impressione di essere affamata di immagini, di volersene impossessare come per restituire visivamente lo strazio che divora László Tóth (Adrien Brody), sopravvissuto ai campi nazisti ma separato dalla moglie e accolto in Pennsylvania dal cugino Attila (Alessandro Nivola).
Corbet, che ha scritto la sceneggiatura con la moglie Mona Fastwold, accumula le notazioni più per empatia che con lucidità narrativa, ci fa intuire che i traumi hanno lasciato in Tóth conseguenze sulla sua forza sessuale, che i dolori per i maltrattamenti lo hanno reso dipendente dall’oppio, ma anche che i suoi studi d’architettura in Ungheria gli hanno formato un gusto decisamente all’avanguardia rispetto ai mobili tradizionali che vende Attila (le linee metalliche della scrivania che progetta fanno a botte con il gusto del cugino e di sua moglie).
Questa sarà il primo dei tanti scontri tra «arte» e «capitale» che costelleranno il film e la vita di Tòth e che hanno il loro acme quando un miliardario (Guy Pearce) lo incaricherà di costruire un gigantesco complesso multifunzionale sulla cima di una collina. Dando inizio così e uno sfiancante braccio di ferro tra le ambizioni del progetto e le regole del capitale, tra le esigenze della bellezza e la resa ai compromessi (persino quello di una cappella cristiana che lui, ebreo, accetta senza fiatare). Fin troppo evidenti le intenzioni metaforiche del film che nella seconda parte delle sue 3 ore e 35 minuti si ingigantiscono per il ricongiungimento con la moglie Erzsébet (Felicity Jones), che finisce per dare nuova forza alla «coscienza artistica» del marito.